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L'Addio che Sa di Vita.

  • Immagine del redattore: Marco Repetto da Roma
    Marco Repetto da Roma
  • 28 set
  • Tempo di lettura: 7 min

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Rispondo alla telefonata di Raffaele, “papino non c'è più". 


Raffaele e io ci siamo conosciuti poco meno di un anno fa, entrambi impegnati in una consulenza per quello che oggi chiamiamo “amico comune” e che, all'epoca, era per tutti e due un cliente, Giancarlo, un fornitore del passato e una conoscenza stimata di lunga data.


In quel periodo, con Raffaele, il “direttore generale”, abbiamo condiviso lunghissime giornate. Spesso iniziavano alle 7 di mattina con l'allenamento in piscina, in cui l'avevo coinvolto. Proseguivano con le mansioni aziendali e si protraevano con un pranzo veloce nella cucina dell'azienda – meno di mezz'ora per cucinare, sparecchiare, rassettare, "caffettare" ed essere già operativi. Il lavoro continuava piacevole in lunghi pomeriggi per dilungarsi fino a sera nella speranza di compiere il programma giornaliero.


Al mio arrivo in azienda Raffaela era già lì con l’incarico di direttore generale e con stupore e imbarazzo mi disse, “questa è la mia stanza ma la cedo a te che hai bisogno di più quiete per lavorare”. Nonostante il mio rifiuto insistente, cominciò a liberare la scrivania dalle sue cose, ripose i suoi plichi in una madia a parete dicendo “queste le lascio qui, ti disturberò quando mi serviranno” e uscì. In rispetto di quel gesto, che ritenni generoso più che funzionale, sistemai la stanza per “renderla mia”: girai la scrivania, appesi al muro (su chiodi esistenti) dei fogli che sintetizzavano l'operatività, la velocità e la concretezza che avevo riconosciuto, come carattere distintivo dell’azienda e, cominciai.


Qualche mese più tardi Raffaele completa la sua consulenza, dopo qualche mese ancora, io la mia.


In quei mesi Giancarlo, Raffaele e io senza neanche accorgerci costruimmo un’amicizia, gestendo attività, entusiasmi e crisi.


Nei mesi che seguirono, ognuno per la sua strada, quell'amicizia di noi tre si è consolidata con costanza e coerenza. Fu un processo inconsapevole, radicato in gesti concreti disinteressati, di stima e benevolenza “operativa”. Non pensavamo a un sentimento, ma a un insieme di azioni esplicite che, pur lontane da uno scopo, hanno continuato a costruire proprio quel sentimento ignorato.


“Papino non c'è più" una frase di dolore STRILLATA sussurrando, con l’eleganza di sempre da non confondere mai col distacco; “sto scendendo a Eboli senza correre, sto andando più calmo del solito” mi disse; "Fai bene” risposi "questo tempo ti serve". " Ho i ragazzi disperati, sarà duro saperli consolare”. “Sei un padre pieno d’amore, saprai essere naturalmente eccezionale, presente e nutriente come al solito”. 


Riaggancio lasciando in sospeso una giornata di totale e affettuosa disponibilità. Compongo il numero di Giancarlo, che mi risponde e mi anticipa dicendo “ho saputo da una conoscenza comune che Raffaele ha perso il papà qualche ora fa, voglio andare giù alla commemorazione”; “Andiamo insieme appena sappiamo quando” rispondo. Poche ore dopo mi arriva il messaggio della “locandina col necrologio”. Mi chiama Giancarlo nello stesso istante, “se non hai altre urgenze partiamo domani alle 10.00 i funerali sono alle 16.00 andiamo giù con calma.”; “ci vediamo a meno un quarto in azienda”.


Entrando a casa di papà Vito poco dopo le 13.00, ad accoglierci c'era tutta la famiglia, fratelli, nipoti e amici. Sfilando nel corridoio d’ingresso mentre salutiamo tra la commozione la famiglia di Raffaele, mi soffermo ad abbracciare stretta lungamente Loredana (la moglie di Raffaele) in lacrime, in fondo al corridoio in cucina si scorge Raffaele, Giancarlo mi precede di qualche passo, mentre vado verso Raffaele scorgo sulla destra “La salma” di Vito, esposta nel grande salone come disposto da lui stesso. 


Guardo pochi metri davanti a me, Raffale e Giancarlo che si abbracciano stretti, rotti entrambi in un pianto disperato di empatia e emozione, di fronte a me la vita che si stringe nel momento dell'inevitabile sofferenza.


Dal grande terrazzo di casa di papà Vito, una vista riassumeva l'universo: il cielo terso di fine estate, il mare di fronte con lo scorcio di Capo Palinuro, a sinistra i monti Picentini. Alle mie spalle, il pianto ininterrotto dei nipoti e i sussurri composti dei parenti. Tutto intorno, accanto al parapetto ossidato che sa di mare, le piante erano curate, potate, rigogliose di vita e di cure appena interrotte dalla perdita di Vito. 


Stride l’universo nella sua perfezione placida, capace di infondere sempre, in qualsiasi occasione, una calma composta e serena anche al cospetto del dolore più intenso e della morte. 


 

A Eboli, Padre Roberto Trasforma il Commiato a Zio Vito in un Inno all'Esistenza Eterna


Eboli (SA) 25-09-2025 – L'aria della chiesa di Eboli, gremita per le esequie del compianto Vito, era pesante di dolore, ma un giovane sacerdote, "Don Roberto Faccenda, sacerdote Ebolitano, noto per il suo approccio diretto e anticonvenzionale nel coinvolgere i giovani, tanto da essere definito un "sacerdote fuori dagli schemi", responsabile della Pastorale Giovanile della Diocesi di Salerno-Campagna-Acerno e cappellano della Salernitana., ha saputo squarciare il velo della mestizia con un'omelia vibrante, per me sorprendente, trasformando l'estremo saluto in un trionfo della Fede e dell'Amore inestinguibile.

In piedi all'ambone, Don Roberto – legato al defunto da un vincolo di nipote – non ha edulcorato la sofferenza del distacco, ma ha offerto ai presenti, in special modo ai figli, alle nuore e ai nipoti, una chiave di lettura della morte che è, essenzialmente, un passaggio e una promessa.


La Sublime Metafora del Neonato: Dalla Paura all'Abbraccio Celeste

Il cuore pulsante dell'omelia è stata una sublime metafora mutuata dal mistero della vita nascente. Don Roberto ha accostato la paura della morte all'angoscia della nascita, descrivendo l'esistenza terrena come il beato ma limitato soggiorno del neonato nel grembo materno: un universo di calore e nutrimento sincronizzato col battito cardiaco della madre, dove ogni voce esterna è un sussurro lontano, quella è la vita per il bambino ancora nel grembo materno.

"Quando l'ora si compie," ha scandito Padre Roberto, "irrompono il tumulto e la sensazione dello strappo. Il piccolo, avvolto in un travaglio di grida, crede che sia la fine di ogni beatitudine. Eppure, proprio in quel 'fine' si manifesta il principio della nuova vita! Ecco il petto materno, la luce chiara, gli occhi che guardano e riconoscono, la carezza che svela i sensi al profumo e al calore della nuova vita."

Con questa toccante metafora, il sacerdote racconta nella perfetta semplicità l’ottimismo teologale rende la morte “solo un trambusto" che ci introduce a una Vita piena, dove il presente terreno sarà ricordato come un "pallido confronto" con la pienezza delle emozioni e dell'Amore di Dio.


L'Eredità della Carità e la Mensa Eterna

Troppo spesso associamo parole profonde ma semplici a significati e gesti troppo complessi e solenni, questo capita alla parola "carità". Carità non è solo, sollecitudine verso gli altri, disponibilità ad aiutare i bisognosi, elemosina, beneficenza.

Il termine "carità" deriva dal latino caritas, che significa "affetto, benevolenza, amore" ed è collegato alla parola latina carus ("caro, amato"). Dal punto di vista del significato, la carità indica un amore disinteressato verso il prossimo, manifestato attraverso opere.

Quindi carità significava "affetto", "benevolenza", "stima", manifestata con operatività e “azione”.

La carità È un amore che non cerca l'interesse personale, ma si estende a tutti “non necessita di bisogno”, è amore disinteressato non necessita di “bisognosi", di opportunità, di amicizia, di consanguineità. Tuttavia è un dono di "gentilezza d'animo”.

Don Roberto, racconta di Vito del suo amore per il convivio, delle tavolate organizzate “all’ultimo” per il gusto della "carità” intesa col sul significato più semplice,  "affetto", "benevolenza", "stima", manifestata con operatività e “azione”. Versare un mestolo di pasta, la più difficile da preparare, quella che “togliendo" il superfluo lascia “l’essenziale", il gesto, l’azione di donare, la squisitezza dell’amore donato “che non necessita di bisogno". Pasta in biaco. Non serve avere ancora appetito, serve quel dono d'amore disinteressato, serve quel mestolo di pasta in più, serve dare per ultimo a se stessi, serve dare un mestolo ancora, quel mestolo che a fine portata Zio Vito a dire nella manifestazione più essenziale e genuina, “Agg mis poca pasta”, (Ho messo poca pasta) come dire, “questo dono non basta mai".

Don Roberto non si è limitato al trascendente, anzi lo ha schivato, lasciando il racconto “dell’essenza" . Raccontando come chiunque entrasse nella casa di Zio Vito, finisse alla sua tavola ricoperto di attenzioni di benevolenza di cura, entrando magari da poco più che sconoscituo ed uscendo da “amico pe rsempre”, segnando quel convivio di " unione duratura e salda”. Così un uomo " buono” riempie i cuori. 

Don Roberto ha ancorato la speranza alla vivida memoria di Zio Vito, uomo la cui carità si manifestava nella concretezza dell'ospitalità e della mensa terrena. Questo ha reso celebre le sue tavolate, i suoi gesti di unione familiare, le provviste abbondanti e le “conserve"  che, simbolicamente, hanno "sopravvissuto" alla sua dipartita, rendendo quelle riserve “infinite” testimoniando una generosità senza misura.

Esortando i familiari a serrare le fila, uniti come li voleva, spalla a spalla sul banco della chiesa, in un "trionfo di familiarità", il sacerdote li ha spinti a nutrirsi della "conserva infinita" . “Quella conserva”, ha assicurato rivolto ai nipoti in prima fila in chiesa, "avrà per sempre il sapore dell'amato nonno."

L'immagine finale, dolcemente romantica e profondamente eucaristica nel suo richiamo al convivio, ha strappato un sorriso tra le lacrime. Padre Roberto ha immaginato Vito al tavolo del Regno dei Cieli, "rifocillando i commensali" con quell'Amore che in vita aveva profuso.

E mentre riempie i piatti tra le nuvole, il Vescovo Eterno e i Santi possono sentire la frase che da sempre suggellava il suo indefesso servizio. Una vita che, nella sua umiltà e proverbiale abbondanza, riassume la misura del suo cuore: saziato e saziante per l'eternità.

Il sermone si è chiuso con l'invito a celebrare la fede in questa "eredità di Unione e Carità", un inno commosso e ottimistico al compimento della “carità". Alzando gli occhi al cielo prestando attenzione a sussurri del vento all’ora del convivio potremmo ascoltare ancora la voce di Zio Vito : “Agg mis poca pasta”.


Nel viaggio di ritorno da Eboli a Roma


E mentre il SUV macinava chilometri verso Roma, il lusso dell'abitacolo rendeva il silenzio accogliente. L'auto non trasportava solo noi: c'era l'eco rassicurante dell'omelia e il prezioso silenzio dell'esperienza condivisa; c'era quell'attenzione disinteressata verso il prossimo, manifestata attraverso opere, che è semplice e giusto chiamare Amicizia; c'era il valore di una vita, reso immutabile, nonostante la morte. Tutto si misurava nel sussurro di quella frase, pronunciata ogni manciata di chilometri: “Agg mis poca pasta”, l’eterna misura di ciò che non può finire.


 
 
 

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